PORTO SANTAVENERE: Le ragioni storiche per ridare alla città costiera il suo antico nome.

Il Toponimo di Santa Venera e di Porto Santa Venere
Le notizie d’archivio sull’esistenza del toponimo Santa Venera o Santa Venere lungo l’area costiera vibonese si concretizzano nel periodo compreso tra il 1444 ed il 1459, riferite alla esistente tonnara detta appunto di S. Venere. In quegli anni Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo, conferma la concessione del palo della tonnara a Zarletto Caracciolo di Napoli; tonnara che ritroviamo in ulteriori atti con il toponimo di Tonnara di S. Venere posseduta sempre da un membro della famiglia Caracciolo, Berardo, signore di Oppido, nel 1505.
Notizie più precise le rintracciamo a partire dal 1507, anni in cui per la prima volta il toponimo si distingue in Feudo di S. Venera, che risulta preso in possesso dal Duca di Monteleone il 23 marzo del 1507, sottraendolo al Principe di Bisignano. E’ un documento della Corte ducale di Monteleone redatto nel primi anni del 700 che ne traccia l’iter d’acquisizione:
Nel 25 Novembre 1507 il suddetto Sig(no)r Principe di Bisignano fece instrumento di vendita del suddetto feudodi Santa Venere a Fanello Mormile per mano di Notar Angelo Marziano di Napoli, e nel 26 Novembre al suddetto Sig(no)r Conte di Monteleone per mano del suddetto Notar Angelo Marziano di Napoli; nel1524 à 20 Agosto per mano di Notar Gregorio Ruffo di Napoli si è fattoinstrumento di affrancazione col Regio assenso per Magn(ifi)co Gian de Gurnara al Magn(ifi)co Berardo Capece, Procuratore del Sig(no)r D(o)n Ettore Pignatello, di annue docati 200 per capitale di docati 2000 sopra detto fondo. Nell’anno 1547per mano di Notar Afonzo Biscia di Napoli, con special privileggio della Maestà di Carlo Quinto, ottenne detto Sig(no)r D(o)n Ettore Pignatello la reintegra et inventario, nella quale per detto feudo contene, di poter nella Marina di Bivona calare la Tonnara (…)nell’anno 1562 detto Sig(no)r D(o)n Ettore Pignatello, ottenne assensoRegio di poter calare detta Tonnara qual Privileggi Reintegra inventario instrumento e Regio Assenso si conservano nel Ducal Archivio. Oggi la detta Ducal Corte affitta le rendite di detto feudo Santa Venere, consistentino le terre diolivi, trappeto, Molino, Giardino di Agrume, fronda nera, Pergoli, Arbusti frutti et ogn’altra rendita che in esso si ottiene per ogni anno candela accensa plus offerente”.
In definitiva tale documento traccia per grandi linee la storia del Feudo di Santa Venere fino all’acquisizione del Pignatelli.
Il toponimo di Santa Vennera lo ritroviamo, qualche anno più tardi, nell’appalto per la costruzione della torre di Santa Vennera o Santa Venere, gemella della Torre di S.Pietro di Bivona, costruite entrambi nel 1564 dal mastro monteleonese Giacomo Pitoya.
Negli anni che si registra un significativo mutamento nelle proprietà lungo la costa. E’ infatti dalla fine del ‘600 che appaiono nuove figure di ricchi proprietari nella storia del Feudo di S. Venere, tra cui spicca, per l’estenzione dei suoi possedimenti, il Portulano Francia, discendente della potente famiglia Di Francia di Monteleone. Il Di Francia risulta possedere in enfiteusi, una gran porzione di terreno proprio nella marina di Monteleone, terra che Corte Ducale meditava di far rientrare tra quelle comprese nel Feudo di Santa Venera, ma per le difficoltà economiche e politiche incontrate dalla seconda metà del settecento dalla famiglia Pignatelli, la totale reintegra del feudo di S. Venere non ebbe alcun esito, anzi, altri ricchi e nobili proprietari monteleonesi cominciarono ad estendere i loro possedimenti lungo il territorio costiero, secondo quanto rileviamo da un dettagliato elenco dei Possedimenti ducali nella marina di Monteleone, redatto il 18 dicembre del 1704.
In tale atto compaiono, includendo il nuovo Portulano, cioè il Reverendissimo Don Orazio di Franza e suo fratello Don Bernardo, il D(otto)r Fisico Franco PauloVita, il magnifico Cesare Lombardo, i magnifici Luigi, Domenico e Antonio Antonucci, il Reverendissimo Don Giò Battista Dilauro della Città dell’Amantea che in seguito, ed esattamente il 28 marzo 1688, vendette la sua proprietà a Don Francesco Paulo Marzano ed a cui subentrarono i figli li Magnifici Guglielmo, Domenico, Fabrizio e Nicola, il magnifico Antonio Crispo, ed infine i Reverendissimi Padri Dominicani di detta città nonché i reverendissimi Padri Scalzi Agostiniani detti della Pietà, della predetta città.
Per quanto riguarda il giardino appartenente ai Pignatelli, il prelato napoletano Giovan Battista Pacichelli, visitando Monteleone nel 1693, lo descrive coltivato di “nobili agrumi” ponendolo a poca distanza dal “picciol e ben disposto Palazzo che chiaman di Santa Venere”, presenza di un palazzo ducale nella marina di Santa Venera confermata nella relazione di una visita pastorale nella parrocchia di Longobardi effettuata a metà 700, distinguendo due cappelle esistenti nella marina, una “vicino al Castello di Bivona” e l’altra “nel Palazzo Ducale alla Marina, dedicata a S. Venera”.
Un grosso aiuto per collocare nell’area costiera il palazzo ducale, o Venera, lo fornisce la descrizione dell’area costiera effettuata, per la relazione sulla costruzione del porto, nel 1834.
In essa compare una diruta casina, nominata appunto di Santa Venere e ben distinta dall’omonima torre, collocata tra la casina Gagliardi e quella di Portolano di Francia, precisando inoltre che “alla dritta della chiesetta di S. Venere per chi da terra si rivolga la mare, osservasi una scaturigine d’acqua, ed un’altra più copiosa inoltrandosi un poco verso l’interno nell’istessa direzione, ed è da notarvi una vaschetta con una statuetta da cui linfe zampillano.” La chiesa era quindi collocata a poca distanza dalla fontana descritta dal Lenormant, sulla cui sommità era collocata la statuetta dell’Arianna dormiente, chiamata Santa Venera dagli abitanti del luogo.
Il nuovo futuro insediativo dell’area costiera di Santa Venera è segnato dal definitivo interramento ed abbandono del porto di Bivona sostituito come scalo da quello di Pizzo.
Il tratto costiero posto tra il vecchio porto vibonese e quello napitino, conosciuto allora dai marinai come Rada di Santa Venera, e compreso tra la Torre Regia di Bivona e la rupe denominata Timpa Bianca, riparato com’era dai minacciosi
venti di maestrale e di libeccio, venne dalla metà del ‘700 in poi, utilizzato dalle imbarcazioni che dovevano fare scalo nel porto di Pizzo, che al contrario era poco sicuro in caso di maltempo.
Proprio per questa naturale protezione la maggior parte delle navi usavano sostare nella rada di S. Venera in attesa del buon tempo, del permesso di sbarco, dei contatti commerciali o per attendere la fine del periodo di contumacia stabilito
dalle leggi sanitarie, quasi come naturale appendice di quell’approdo ricavato in piccola una lingua di spiaggia.
E’ il 1792 quando l’economista Giuseppe Maria Galanti, incaricato dal Sovrano di redigere una relazione sugli effetti del terremoto del 1783 nell’area vibonese, notando come il duca di Monteleone continuava ad esigere le tasse d’ancoraggio nonostante il porto antico di Bivona fosse ormai ridotto ad un semplice approdo, prese in seria considerazione l’opportunità di costruirne uno nuovo “giacchè oggidì” il vecchio porto “è sufficiente a dare ricovero ad alcuni, ma vi è bisognodi guida per entrarvi”.
Egli fece tale riflessione partendo dalle notizie del riparo offerto dalla rada di Santa Venere di ben cinque bastimenti, e richiese in tale senso un’accurata relazione al Generale Acton, il quale precisa di aver dato incarico al Regio Ingegnere Don Ermenegildo Sintes d’impegnarsi nell’ipotesi costruttiva di un nuovo porto, della quale espone di seguito i risultati più salienti:
“Egli ha ritrovato verissimo che nella marina chiamata di Santa Venere, la quale è nel golfo di Sant’Eufemia tra la città del Pizzo e quella di Monteleone, vedesiformato dalla natura un seno ben grande, garantito da un masso, ossia secca,continuato, che si estende nel mare per circa mezzo miglio in forma quasi semicircolare. Il seno che forma questo masso somministra l'idea di un magnifico e sicuro porto; imperocchè viene a difenderlo da’ venti di Ponente, di Maestro e Libeccio, e dà la sicura apertura al porto dalla parte di Tramontana. Nelle sue vicinanze non iscorrono fiumi di alcuna sorte, da’ quali si possa temere deposizioni di arena e di interramento. La profondità dell’acqua di tutto il seno è assai grande, e strabocchevole, capace di qualunque bastimento di alto bordo. La lingua di terra, ossia secca, che forma il seno, è situata poco al di sotto del pelo dell’acqua.”
Il generale precisa inoltre di averne fatto redigere una pianta, con la raffigurazione di un’idea complessiva della costruzione dei moli, che avrebbe presto sottoposto all’attenzione del Galanti, compreso un preventivo di massima, pari a 130.000 ducati, per la costruzione completa del porto, “con tutte le necessarie opere di Lanterna, ridotti d’artiglieria, magazini, e ogn’altro”.
Finchè il porto non verrà costruito la presenza del vicino porto ad alaggio di Pizzo, consentì il trasferimento degli uffici Doganali Regi ma, ancorpiù, la presenza di un nutrito corpo militare in grado di garantire sicurezza ai bastimenti che qui approdavano, per tutto il periodo napoleonico.
I testimoniali redatti in quegli anni dai padroni barca, presso i notai di Monteleone e Pizzo offrono un’inedito repertorio di storie personali, di difficoltà quotidiane, di imprevisti che, seppur rappresentando di volta in volta episodi piccoli, minimali rispetto alla storia dell’intera regione, riescono ad essere preziose testimonianze ed unite ad altrettante piccole storie offrono un contributo determinante per la storia di un territorio e del suo evolversi nel tempo.
Durante tutto il periodo napoleonico il porto di Pizzo riuscì ad affermarsi come un’importante tappa intermedia per il commercio marittimo tra Napoli e la Sicilia, protetto come era dai cannoni posti nel Castello e nella marina, lungo la rotonda piattaforma della Monacella, ma presentava lo svantaggio di essere costituito in larga parte da una piccola spiaggia e poco riparato dai venti e dai marosi, tant’è che in questi casi le imbarcazioni preferivano trasferirsi a sostare proprio lungo la rada di S. Venere.
Questa notevole quantità di bastimenti che utilizzavano la rada come rifugio, favorì in breve tempo la nascita di un piccolo villaggio. Alle case della famiglia Marzano, dei Gagliardi, del Portolano di Francia, dei Guardia Costa ecc., si affiancarono altre piccole casette di marinai e pescatori, nonché qualche taverna, e la prima descrizione in tal senso ci viene fornita dallo studioso svizzereo Charles Didier, che nel 1835 visitò l’area costiera:“...Il golfo di S. Eufemia termina come comincia, cioè con degli oliveti, tagliati quà e là da quercie e faggi, popolati da un villaggio chiamato Santa Venere. Santa, a dire il vero, un pò profana, benché bene e canonicamente riportata nel calendario romano”.
E’ il 1840 quando il commendatore Domenico Cervati, dà alle stampe la relazione del progetto definitivo “per ridurre l’ancoraggio di S(ant)a Venere presso la città del Pizzo, nel Golfo di S.a Eufemia, a sicuro ed ampio porto”.
Egli sottolinea come un porto costruito nella Rada di S. Venere verrebbe a collocarsi nella media distanza da tutte e tre le Calabrie, in quanto distante 71 miglia da Cosenza, 40 da Catanzaro, e 61 da Reggio, divendendo in breve lo sbocco ottimale dei loro ricchissimi prodotti: “troverebbesi eziando presso alle copiose pianure del golfo di S. Eufemia, facendo capo dalla marina di Nicastro alla foce dell’Angitola, e dalle terre di popolati paesi che si distendono da Monteleone sino a Rosarno. Per tali essenziali vantaggi quella postura centralepresso alla quale prolungasi la strada Regia, che radendo il ciglio della pendice su cui siede la Città del Pizzo, con breve tratto non maggiore di tre quarti di miglio, potrebbe comunicare col porto, diverrebbe l’emporio del commercio delle Calabrie, e sorgere vi si vedrebbe una numerosa popolazione d’industriosi abitanti. Né ciò è un vago e semplice concetto. Il Pizzo posto ad egual distanza delle due città più operose e commercianti delle Calabrie, Nicastro e Gioia, va di giorno in giorno accrescendo la sua importanza malgrado le condizioni in cui è. Esso già divenuto veicolo del commercio di Nicastro, il diverrebbe ancora di Gioia con la costruzione del porto di S. Venere, di cui la bocca essendo distante da quella Città per un breve ed agevole spazio di lido lungo men di un miglio e tre quarti (pal. 12000), in breve vedrebbonsi riuniti quei due luoghi in una sola città. Così il commercio delle vicine città calabre ricche e popolose avrebbe un luogo accomodatissimo al traffico ed allo scambio delle merci, e resterebbe deserto il paventoso sbarcatoio di Gioia. (…) Né qui si pretermette di far considerare, che i Reali e grandi Stabilimenti della Mongiana e di Ferdinandea, che l’un di più che l’altro vanno acquistando nuovo incremento e maggior lustro, nullameno non han ove emettere i loro abbondanti lavori di ferro, tutto che siasi costruita con grave dispendio una strada rotabile da essi alPizzo, ed altra da questa città alla marina, ove convenienti depositi sono stati pur edificati. Attualmente que’ prodotti caricansi a spilluzzico su piccoli navicelli in sulla spiaggia del Pizzo, come il punto più prossimo e più facile pei trasporti; e in cambio, formandosi il porto in S. Venere, facilmente si estrarrebbero per mezzo di grosse navi con guadagno di tempo e risparmio di spesa”.
Non trascorse molto tempo, dalla data di questo primo progetto, all’istituzione del porto di Santa Venere. La macchina burocratica messa in moto dai sovrani per la costruzione del porto di Santa Venere non subì alcun contraccolpo, tant’è che il 29 maggio del 1863 viene promulgata la legge n. 1299, che istituiva il porto di quarta classe di S. Venere e successivamente, il 25 luglio del 1864 , viene promulgato il Regio Decreto che stabiliva la ripartizione della spesa per la sua costruzione, metà a carico dello stato e l’altra metà a carico delle province calabresi.
Ma l’episodio che scatenò maggiori reazioni fu l’emanazione del Decreto Regio del 3 maggio 1885 che, classificando il porto di terza categoria, rivedeva gli enti obbligati a contribuire economicamente alla sua costruzione, includendovi anche i minicipi locali, in quote percentuali ripartite secondo le ricadute positive nei rispettivi territori.
Questo provocò una violenta reazione da parte del Consiglio Comunale del Municipio di Monteleone che l’8 luglio di quello stesso anno deliberava il ricorso al decreto per l’illeggittima ripartizione delle spese a carico dei comuni, tra i quali, non a caso, quello di Monteleone risultava il maggiore contribuente.
Argomentazioni che non trovarono nessun credito presso gli organismi statali, ed ebbero il solo effetto di escludere la città di Monteleone dall’assegnazione del Compartimento Marittimo competente alla gestione portuale che, al contrario, il 29 novembre del 1886, con la consegna al comandante Giurano Giuseppe ed all’applicato di porto di I classe Rioco Giuseppe, veniva assegnato alla XVI Capitaneria di Porto del nuovo Compartimento Marittimo di Pizzo Calabro.
Successivamente, il 7 agosto 1887 un ulteriore Regio Decreto elevava la sua classificazione alla seconda classe, serie seconda.
Con il completamento del tratto ferroviario Eccellente-Tropea-Rosarno, iniziato nel 1885 e terminato dieci anni dopo, il porto cominciò ad offrire risultati economici soddisfacenti, collegandosi con un complesso sistema viario che garantiva la distribuzione delle marci sbarcate ed imbarcate nel resto dell’intera penisola, con tempi e costi economicamente vantaggiosi. Le tante merci provenienti dalla Sicilia caricate nelle capienti stive dei piroscafi a vapore, trovavano nel porto di Santa Venere lo scalo ideale nel quale poi far proseguire, ricaricate nei vagoni della ferrovia, la loro distribuzione nelle principali città del Regno.
Ma a parte la valenza economica che man mano l’aria costiera vibonese andava acquisendo in quegli anni, l’evento in cui il porto e la nuova stazione ferroviaria di Monteleone – Porto Santa Venere si rivelarono come importanti snodi strategici nel complessivo sistema viario italiano, fu il violento terremonto che nel 1905 funestò l’intera regione calabrese. Il Porto Santa Venere divenne in quei giorni la principale area di smistamento dei soccorsi, che giunsero in Calabria esclusivamente con treni e navi a vapore, proprio perché la precarietà e la pericolosità delle strade pubbliche calabresi si rivelò allora in tutta la sua drammaticità.
Il giorno dopo giungono da Messina due torpediniere, la 127 e 128, cariche di medicinali e ghiaccio, così come dal panificio militare stessa città, vengono spediti regolarmente per alcune settimane, con due viaggi giornalieri, 2000 chilogrammi di pane.
In quella stessa sera giungono alla stazione di Porto Santa Venere un gruppo di ottanta soldati zappatori dell’87 e 88 fanteria, partiti da Bari con il treno delle 9,20, come precisa un quotidiano italiano dell’epoca.
La città di Monteleone venne immediatamente scelta dal Prefetto di Catanzaro e dal sindaco marchese di Francia quale base operativa dei soccorsi.
A Porto Santa Venere fece tappa il piroscafo della Regia Marina “Garigliano”, partito da Napoli con un carico di 1000 metri cubi di legname destinati alla costruzione di barracche, oltre a coperte, viveri, utensili ed allo stesso personale che dovrà prestar mano d’opera al lavoro di edificazione, così come il vapore “Mathias Kiraly” partito da Genova carico di 6000 coperte, 1000 materassi, 2000 cuscini, 15.000 ceste di pasta, 50 quintali di pane, una botte di vino, 30 sacchi diriso, 5 casse di caffè, 950 scatole di ferro smaltato, oltre ai rappresentanti di quel comitato che avrebbero coordinato gli interventi a favore dei terremotati.
Proprio al Comitato dei soccorsi genovese si devono gli interventi a favore degli abitanti compresi nella fascia costiera di Porto Santa Venere e Porto Salvo.
Gli anni successivi al 1910 videro aumentare gli investimenti strutturali lungo la costa vibonese, è infatti di quegli anni il primo Piano Regolatore del Porto e del Borgo, che si concretizzò con la contemporanea vendita di gran parte degli arenili posti a ridosso della struttura portuale. Il 4 ottobre 1923 venne inaugurato il tratto a scartamento ridotto delle Ferrovie Calabro Lucane che collegava il porto con le città di Pizzo, Monteleone e Mileto.
Le due linee ferrate modificarono in maniera determinante l’assetto del territorio costiero, grazie alla regimentazione dei tanti torrenti che dalla collina raggiungevano il mare ed alla realizzazione di strade in grado di collegare le due stazioni all’impianto portuale del borgo di Porto Santa Venere.
L’attuale corso Michele Bianchi, costruito nel 1938 dal Provveditore alle Opere Pubbliche Lepore, con gli avanzi della costruzione del molo foraneo, divenne la via principale della cittadina costiera, ai cui lati si affacciavano i palazzi Condò, Di Tocco, Cutullè, Tranquillo, Candela, nonchè la tonnara di S. Venere, appartenente al Cav. Adragna, che uniti alla contemporanea costruzione della chiesa, delle casermette della dogana, del genio civile, della sede staccata del compartimento marittimo, dei magazzini portuali e delle prime ma numerose attività imprenditoriali nazionali che acquisivano le aree demaniali retro portuali (Gaslini, Montecatini Edison, Saima, etc.)

Il cambio del nome: un falso storico.


E’ nel 1928 che il comune di Monteleone mutò il suo nome con quello di Vibo Valentia.
Il Regio Decreto che sancisce il nuovo nome del comune è dell’ 8 Dicembre 1927, n. 2449, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 1928 così recita:
Autorizzazione al comune di Monteleone di Calabria a mutare la propria denominazione in quella di Vibo Valentia. Vittorio Emanuele III, Per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Sulla proposta del Capo di Governo, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro Segretario di Stato per gli affari dell'interno; Veduta la domanda con cui il commissario prefettizio per la temporanea amministrazione del comune di Monteleone di Calabria, in esecuzione della deliberazione 23 febbraio 1927 del Consiglio comunale, ha chiesto l'autorizzazione a mutare la denominazione del Comune stesso in "Vibo Valentia"; Veduto il parere favorevole espresso dal Consiglio provinciale di Catanzaro con deliberazione 16 settembre 1927; Veduta la lettera 12 agosto 1927, n. 404485, del Ministero delle comunicazioni, Direzione generale delle poste e dei telegrafi; Abbiamo decretato e decretiamo:
Il comune di Monteleone di Calabria è autorizzato a mutare la sua denominazione in "Vibo Valentia".
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 8 dicembre 1927. Anno VI. Vittorio Emanuele, Mussolini.


Si è sempre dato per scontato che il cambio del nome alla città di Monteleone comportò il conseguente e contemporaneo cambio del nome del borgo marittimo, dal punto di vista giuridico amministrativo ma in realtà la lettura delle delibere dell’epoca rivela l’esatto contrario.
La lettura in particolare della delibera del Consiglio Comunale del 23 febbraio 1927, con la quale all'unanimità il consiglio propose al Re l'adozione del nome di Vibo Valentia (citata nel Regio Decreto) ripresa dall’Archivio Storico del Comune, nella quale viene trascritta integralmente la proposta avanzata dalla locale sezione dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, chiarisce il senso della proposta, e riassunta nelle parole del Sindaco Scrugli, testualmente delibera:
“Fare istanza al Governo del Re perché sia autorizzata questa Città ad assumere il nome di Vibo Valenzia e Marina di Vibo Valenzia sia chiamato tutto il litorale che si estende da Porto Salvo fino al limite di Porto S. Venere”.
Dunque in delibera per nessuno dei borghi costieri è esplicitato alcun mutamento di nome, tant'è che le borgate di Porto Salvo e Porto S. Venere vengono riportate esclusivamente “limiti” geografici della “Marina di Vibo Valenzia”. Difatti la delibera comunale del '27 dichiarando senza alcun dubbio che "Marina di Vibo Valenzia sia chiamato tutto il litorale che si estende da Porto Salvo fino al limite di Porto S. Venere", esplicita un volere deliberante del consiglio tutt'altro che teso a mutare il nome al borgo portuale, così come il Regio Decreto inoltre, attenendosi al puro merito descrittivo espresso in delibera, autorizza esclusivamente il cambio del nome del comune da Monteleone di Calabria.In sintesi una nuova denominazione anche per il borgo di Porto Santa Venere:
non venne richiesta dalla locale sezione Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra;
non venne proposta nella sintesi della deliberazione messa ai voti;
non venne deliberata dal consiglio;
non venne decretata nel Regio Decreto dell'8 dicembre 1927.

C'è di più. Da una prima lettura delle delibere degli anni immediatamente successivi (1928-1930) non risulta alcuna deliberazione di presa d'atto del Regio Decreto, nè ancorpiù viene in quegli anni utilizzato nelle deliberazioni altro nome che Porto Santa Venere, nell'indicare il borgo marino del comune di Vibo Valentia.
Per dimostrare quanto fosse evidente in quegli anni ai più, anche amministrativamente, che con il termine “Marina di Vibo Valentia” si indicasse l’intero litorale comunale, mantenendo ben distinto il nome del borgo di S. Venere, riportiamo per intero una delibera emessa dal Podestà Scrugli (lo stesso Scrugli - badate - che da sindaco interpretò il volere del consiglio, avanzando la proposta al Re, nel 1927, per il cambio del nome in Vibo Valentia) datata 28 marzo 1931. La delibera trae spunto da un atto valoroso compiuto da un giovane balilla di 10 anni, Malerba Antonio, che salvò la vita al giovanetto Greco Vittorio, tuffatosi in “acqua senza saper nuotare”. Un episodio minimo, ma pur sempre un gesto coraggioso e solidale, da evidenziare in una comunità che in quegli anni aveva necessità di rendere “visibili” e contaminanti i gesti “eroici”.
Ma trascriviamo
la delibera per intero:
Tornata del 28 marzo 1931 a. IX - L'anno millenovecentotrentuno a IX del giorno 28 del mese di marzo in Vibo Valentia e nella residenza Municipale;
Il Podestà Sig. Dott. Cav. Scrugli Lorenzo, nominato con R.D. 23-6-930 a. VII. ssistito dal Segretario Sig. Ramondini Giuseppe.

Visto il rapporto del delegato Municipale della borgata di Porto S. Venere relativa all'azione generosa compiuta nelle acque di S. Venere dal Balilla Malerba Antonio di Camillo e Maria Riga nato a Porto S. Venere nel 1921 e dal quale di rileva che alle ore 11 del 1 giugno il Malerba si tuffava in mare tutto vestito per trarre in salvo il giovanetto Greco Vittorio di Giuseppe, il quale imprudentemente si era tuffato in acqua senza saper nuotare. Ritenuto che l'atto generoso compiuto dal Malerba, per le circostanze in cui si è svolto merita una ricompensa. Infatti il Malerba si trovò solo nel posto perchè la località poco frequentata ed ha un tra di 15 metri di mare profondo due metri
Delibera che per l'azione compiuta dal Malerba, lo stesso deve essere proposto per una ricompensa.

La data e la descrizione della delibera sono importanti sia perché risultano estremi podestarili redatti a tre anni di distanza dal cambio del nome, epoca in cui è ben consolidato l’uso, per la città collinare del nuovo nome di Vibo Valentia, sia perchè altrettanto consolidato - e contemporaneo - si rivela l'uso del toponimo S. Venere per il borgo costiero, nome che tra l’altro distingue la figura istituzionale del Delegato del Comune di Vibo Valentia come “Delegato Municipale della borgata di Porto S.Venere”.
E’ inoltre utile sottolineare che questa delibera del '31 è emessa dal Cav. Lorenzo Scrugli, in quell’anno Podestà, che proprio nel 1927 era il Sindaco di quell’amministrazione che il 23 febbraio deliberò la richiesta al Sovrano del nuovo nome di Vibo Valentia ; dunque un amministratore che tanto si spese per quella nuova dizione e che se, al di là delle carte, avesse avuto la benché certezza che quell’atto modificava anche il nome del borgo costiero, non avrebbe in alcun modo esitato di indicarne il Delegato Municipale, tre anni dopo, come Delegato Municipale di Vibo Marina.


E' opportuno ridare alla città costiera il suo antico nome.

L’escursus storico fin qui dimostra ampiamente quanto radicata fosse l’esistenza del toponimo Santa Venere nell’area costiera, ed ancorpiù quanto tale nome si legò stabilmente al progressivo consolidamento delle attività economiche legata alla pesca prima; al successivo e costante sviluppo dell’area portuale poi ed infine alla formazione del nucleo storico del suo centro urbano.
La città portuale è dunque legata indissolubilmente al porto ed al mare: lo è la sua storia, lo è la sua gente, lo è, ancora ed in parte, la sua economia.
Questo legame oggi patisce una sterile estraneità e subisce azioni che tendono a slegare la comunità con la sua storia, le sue strutture, rendendo fragili anche le relazioni tra i cittadini. E’ necessario dunque un atto che sottintenda ad una più corretta visione di comunità e di futuro, riannodando quei legami col territorio e la sua storia, oggi ancorpiù determinanti in ogni progetto di sviluppo.
Ridare alla città portuale dunque il suo antico nome di Porto Santa Venere, non rappresenta solo un fatto dall’enorme valore simbolico, che riannoda il legame tra la storia del territorio e la sua comunità (che tra l’altro ancora oggi si riconosce nel suo antico nome), è un necessario atto riparatorio rispetto ad un inspiegabile e grossolano errore amministrativo, ma ancorpiù è un atto che consentirà di rilanciare la città costiera nella sua unicità di vera città portuale, dotata di una delle infrastrutture marittime più importanti della regione ed un centro urbano che se valorizzato come borgo marittimo, si inserirebbe tra i gioielli turistici della Costa degli Dei.
Sarà dunque un atto amministrativo determinante nel sostenere i settori collegati all'economia del mare con particolare riferimento alla nautica da diporto, cantieristico e ad turismo sostenibile inserito in un sistemo sinergico "mare ed entroterra" nonché alle attività ad esso collegate, attraverso azioni strategiche di integrazione settoriale ed innovazione finalizzate a sostenere i settori collegati all'economia del mare ed a favorire lo sviluppo di del suo vero ed imprescindibile “sistema culturale” attraverso investimenti nei beni culturali legati alla tradizione marittimo/marinara.
2010 (C) Antonio Montesanti

Commenti

giuseppe addesi ha detto…
Ridare alla nostra cittadina l'antico nome di Porto S.Venere non rappresenterebbe soltanto un ristabilimento della verità storica, ma anche la ricomposizione di una illegittimità amministrativa perpetrata in maniera surrettizia ai danni della nostra comunità, come ampiamente dimostrato nella pregevole ricerca di Antonio. C'é da aggiungere che anche gli archivi militari britannici, nella descrizione dello sbarco alleato,menzionano sempre la nostra cittadina come Porto Santa Venere e mai come Marina di Vibo Valentia ed é impensabile che per un'importante operazione militare, effettuata nel 1943, i comandi alleati si siano serviti di mappe vetuste(ante 1927).
Occoorre, a questo punto, porre in essere ogni intervento per riappropriarsi del nostro antico e glorioso toponimo e questo dovrebbe costituire un preciso impegno da parte di chiunque abbia modo di rappresentare, in seno al nuovo Consiglio Comunale, la nostra comunità (ammesso che essa riesca ad esprimerne qualcuno.
EOS ha detto…
Condivido appieno quanto scrivi. E' forse il caso di organizzare a breve una sorta di "Presidio della Memoria" ... grazie al quale porre al prossimo consiglio la ricomposizione di questa illeggittimità storica: anche perchè serio è il rischio che prossimamente al nostro paese tocchi il triste ripetersi della stori, ed al posto del nome attuale o passato, venga assegnato quello di "Marinate" !!!!!

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